L'arte del canto
Quel canto, il solitario non ricordava d'averlo
mai udito: era una sorte di salace rondo
in dialetto incomprensibile e con un ritornello
a risata, regolarmente ripreso dall'intera banda
a piena gola. A quel punto cessavano parole
e accompagnamneto; non rimaneva che la risata,
obbediente bensi a un certo ritmo, ma trattata
con grande naturalezza specie dal solista,
che con grande talento sapeva infonderle
evidenza stupefacente.
Thomas Mann
Canto s. m. [lat. Cantus -us, der. Di canĕre «cantare»]. Movimento ritmico della
voce dall'uno all'altro grado della serie dei suoni; con significato concreto,
espressione vocale della musica, l'atto del cantare. Si dice proprio dell'uomo: il canto
è un mezzo per esprimere i propri sentimenti; riempire la casa di canti gioiosi;
Sonavan le quiete Stanze, e le vie d'intorno, Al tuo perpetuo c. (Leopardi); una sera
d'estate è una sera d'estate E adesso avrà più senso Il canto degli ubriachi (Vittorio
Sereni)
Treccani
Il canto si articola di solito su un testo, anche se non necessariamente; il duplice canale di comunicazione (musica-parola) rende la voce lo strumento musicale naturale più duttile, capace di produrre sull'uomo gli effetti più profondi nell'animo e nella psiche. Nell'eloquio l'intonazione della voce varia senza mai stabilizzarsi su una frequenza particolare; quando invece tende a farsi determinata essa prende al nostro orecchio i caratteri del canto. In questo caso l'ambito tonale è solitamente maggiore che nell'eloquio.
La voce dipende dalla costituzione dell'individuo e consente l'identificazione della persona, varia in base al genere se femminile o maschile e all'l'età. Con la pubertà, infatti, nei maschi le dimensioni della laringe si accrescono più che nelle femmine mentre la sua posizione nel collo si fa più bassa: la voce cioè entra in muta abbassandosi di un'ottava ed assumendo le caratteristiche maschili. La variabilità della voce è continua, ma le esigenze musicali hanno indotto i compositori a scrivere parti distinte per le voci basse, medie ed acute. Dal basso all'acuto esse sono: basso, baritono, tenore (voci maschili), contralto, mezzosoprano, soprano (voci femminili).
Le vicende stilistiche del melodramma ottocentesco hanno portato all'abbinamento delle classi vocali ai ruoli, motivo per cui generalmente si può dire che soprano e tenore sono protagonisti, mezzosoprano e baritono antagonisti, mentre contralto e basso rappresentano i personaggi di maggiore dignità sociale: re, genitori, sacerdoti... I criteri di classificazione in uso sono legati a due parametri, estensione e timbro, che dipendono molto anche dalla tecnica adottata e spesso dal percorso didattico effettuato. Accade, purtroppo ancora troppo spesso, che la collocazione del cantante in una categoria sia approssimativa e a volte non corretta. Spesso il cantante si trova costretto a modificarla nel percorso di studi, causando rallentamenti nella carriera o addirittura danni vocali. Per questo la classificazione deve essere solo di tipo indicativo, sarà il repertorio maggiormente congeniale all'artista che ne definirà l'identità.
DIFFICOLTA' DI INTONAZIONE
L'incapacità di dare alle note l'intonazione desiderata o stonazione può dipendere
dall'incapacità a riconoscere l'altezza dei suoni o più frequente l'incapacità fonatoria
di emettere le note desiderate, generalmente per un mancato coordinamento pneumofonico.
Quando l'accordo fra movimenti respiratori e quelli della laringe è inadeguato può
accadere che tutto il lavoro muscolare necessario al controllo fine dell'intonazione sia
scaricato sulla muscolatura intrinseca della laringe.
Espressione della voce umana che tende all'esecuzione di un'idea melodica, con o
senza parole, variando le inflessioni del linguaggio parlato: nell'altezza,
nell'intensità dei suoni, nel loro timbro, nella durata, prolungando o abbreviando il
valore delle sillabe.
Garzanti, Enciclopedia Europea
Le antiche civiltà asiatiche, mediorientali ed egizia associarono il canto allo studio della musica. Probabilmente si ebbe anche una tecnica vocale, sebbene totalmente empirica. Presso i greci ed i romani, l'esistenza di una tecnica vocale è storicamente comprovata. Nel medioevo, in particolare fra il sec.VIII e il IX, lo sviluppo degli studi musicali portò, nei paesi islamici, a grandi progressi nel canto e alla formazione d'una tecnica vocale abbastanza evoluta, cosa che in occidente avverrà solo successivamente. I cantanti islamici possedevano una notevole estensione, caratteristici del loro canto erano i suoni tremuli di lunga durata, le inflessioni nasali, il trillo su note molto alte (tudhuri) e in particolari momenti, esplosioni vocali acutissime.
CANTO NELL'ANTICO EGITTO
Il termine heset, "canto", è determinato proprio dal segno con l'uomo che porta la mano alla bocca, tipico delle attività orali; in altri casi, le composizioni possono essere definite come "parole", "formule", "versi in rima". Come ha osservato Bernard Mathieu, nei canti propriamente detti, ricorrono espressioni "rivelatorie", come "dare l'intonazione" e la menzione stessa della "voce", che non è solo quello dell'amato/a, benché spesso siano costruite proprio su di un dialogo fra voce maschile e femminile. E' probabile che il liuto fosse l'accompagnamento di tali canti: è, infatti, uno strumento spesso associato all'eros nell'iconografia egizia.
Fin dall'Antico Regno nei monumenti funerari compaiono le figlie o le mogli del defunto che cantano o suonano l'arpa. Una testimonianza eccezionale è costituita dalla tomba di Pepiankh, a Meir, dove le figlie di questo personaggio cantano accompagnate da un flautista, si tratta di una scena comune ma qui compaiono per la prima volta i testi cantati dalle due fanciulle. Sono brevi inni agli dei, probabilmente i primi testi a essere eseguiti in ambito funerario, eccone un esempio: Canto di Pescerneferet, "sua figlia, sua amata": Appare in gloria il dio d'oro nella grande porta (del cielo!).
Nel Medio Regno si diffonde la moda di raffigurare degli arpisti all'interno delle
tombe, spesso con i testi che da essi erano eseguiti: si tratta di un fenomeno ancora
non molto diffuso. Si tratta generalmente di preghiere funerarie volte ad assicurare la
vita eterna al defunto; sono composizioni che si diffonderanno anche nel Nuovo
Regno, e che sono conosciuti come inni di "trasfigurazione" e "glorificazione",
definiti dagli Egizi sakh o sakhu, "reso spirito", modo in cui era indicato il potere
magico di cui era rivestito il defunto sepolto con gli opportuni rituali. Questi canti
compaiono soprattutto nella necropoli di Tebe, situati di preferenza sulle strombature
delle porte e lungo i corridoi. Vi sono raffigurati prevalentemente uomini che
suonano l'arpa, ma a volte anche donne o gruppi misti di musicisti; in alcuni casi
l'arpa è sostituita dal liuto. I testi cercano soprattutto di ricostruire la personalità
fisica e sociale del defunto, che passa dal mondo terreno a quello dell'aldilà.
Fra i canti più noti, troviamo quelli presenti nella Tomba Tebana n°50, presso El
Qurna, appartenente a Neferhotep, "padre divino" di Amon durante il regno di
Horemheb. Sulle pareti della tomba compaiono i testi di cinque canzoni, di cui due
eseguiti dalle figlie del defunto. Le due ragazze (di cui rimane solo l'immagine di
Tinetgeser) suonano il liuto accanto ad un arpista professionista, che esegue altri due
canti, a carattere morale e religioso.
Non mancano però, anche all'interno della stessa tomba, dei testi che recano
messaggi teologico - filosofici in contrasto fra di loro, come accade anche all'interno
della tomba di Neferhotep. Qui, infatti, accanto ai canti che celebrano la vita felice
che attende il defunto, si attestano anche quelli simili al celebre canto dell'arpista
sulla tomba del re Antef, caratterizzati da cupo pessimismo: sono inutili le tombe e le
necropoli, destinate anch'essi a crollare e diventare polvere.
Testi di questo tipo divengono molto frequenti in età ramesside (1291-1080 a.C.),
quando si "rispolverano" gli antichi testi. E' possibile che tali canti, che inneggiano al
godimento della vita, abbiano un'origine profana e fossero eseguiti durante le feste e
i banchetti. Temi comuni sono anche l'impossibilità di conoscere il destino dei
defunti, il non poter tornare indietro una volta morti, la caducità delle necropoli. Il
canto detto di Neferhotep II polemizza apertamente con i canti quali quello di Antef:
con essi, in passato, si è voluto "sminuire la necropoli", cioè le speranze di una vita
ultraterrena. Questo canto vuole invece celebrare l'aldilà, cui tutti sono destinati. In
sintonia con questi temi è anche il contiguo canto di Neferhotep III, dove l'arpista
proclama ancora il valore e la speranza, non vana ma certa, di una vita nell'aldilà,
paragonata, anche se più sinteticamente rispetto al canto precedente, alla caducità
della vita terrena. Vi si elogia inoltre il defunto, augurandogli una buona permanenza
nella tomba, e si descrivono le tappe del suo viaggio nell'aldilà.
Questi esempi suggeriscono che tali canti, così antitetici eppure spesso accostati, non
fossero visti come proiezione delle idee del defunto, quanto un semplice elemento
decorativo, che egli era in grado di apprezzare nelle sue varie componenti morali,
filosofiche e religiose, magnificandone la cultura e la ricchezza. A differenza degli
altri canti, nessun canto d'amore egizio ci è giunto insieme a una raffigurazione di
cantanti e/o musicisti; tuttavia, molto spesso essi erano già chiamati canti dalle fonti,
come ad esempio i "canti per distrarre il cuore", scritti sul recto del Papiro Harris (lo
stesso che riporta sul verso il "canto del re Antef").
CANTO NELLE CIVILTA' GRECA E ROMANA
Nell'Antica Grecia il canto professionistico era affidato solo alle voci maschili. Di seguito la differenziazione tra le voci:
Netoidi: voci acute usate nel canto solistico e virtuosistico
Mesoidi: voci intermedie, ricorrenti nel canto popolare e corale
Ipatoidi: voci gravi, caratteristiche del canto degli attori delle tragedie
Erano utilizzate anche le "voci bianche", cioè quelle dei ragazzi prima della pubertà. Le donne non potevano diventare cantanti professioniste, ma la voce femminile era molto apprezzata. Chi non ricorda il canto delle sirene, creature metà pesci e metà donne, che con la loro voce melodiosa facevano perdere il senno e la rotta ai naviganti, che andavano a morire sugli scogli della loro isola. Ulisse, turate con la cera le orecchie dei suoi compagni, si fece legare all'albero della nave per poter ascoltare il loro canto...
Nell'Antica Roma lo studio dell'arte oratoria includeva la conoscenza di “espedienti”
per rafforzare le voci e arricchirle di particolari inflessioni; di ciò se ne avvantaggiò
l'eredità lasciata dai greci.
Così come i greci, anche gli antichi romani ignoravano l'armonia e la polifonia.
Nell'antica Grecia, la musica veniva raffigurata con un andamento “discendente”,
tutto a voler simboleggiare che la musica era divina e ci perveniva dall'alto degli dei
fin sulla terra, quasi come in dono.
LA MUSICA NELLA GRECIA ANTICA
Se ci riferiamo al canto nella grecia antica non possiamo non considerare il
ditirambo, tipica forma di poesia lirica corale greca, da cui avranno origine la tragedia
ed il dramma satiresco.
Nella divisione abituale dei generi letterari, per noi moderni 'poesia lirica' designa
quella poesia che esprime con maggiore immediatezza i sentimenti soggettivi del
poeta. In Grecia, però, il termine si riferiva semplicemente al fatto che tale poesia
veniva intonata al suono della lira. La lira, com'è noto, è uno strumento a corde
costituito da una cassa armonica da cui si partono due aste unite quasi all'estremità da
una traversa superiore; fra questa e la cassa sono tese le corde di nervo di montone,
che variano di numero a seconda degli strumenti. Il mito narra che la lira fu inventata
dal piccolo Hermês poco dopo la nascita, utilizzando intestini di vacca ed un guscio
di tartaruga.
Si è detto che la poesia lirica veniva 'intonata': effettivamente, bisogna sottolineare
che la voce (nella 'lirica monòdica') o le voci (nella 'lirica corale') si
accompagnavano alla lira, intonando i versi della poesia. Questo fatto costituisce
l'aspetto più distante dalla sensibilità poetica moderna e contemporaneamente quello
più difficile da afferrare e da ricostruire. Giustamente è stato infatti affermato che,
mancandoci la notazione musicale (e quindi un riferimento di tono e di tempo
precisi), ci resta soltanto un aspetto assai limitato della 'lirica' antica; aspetto ancor
più ridotto in traduzione, per la perdita dei riferimenti metrici, già indeboliti dalla
scomparsa dell'accento musicale tipico dell'antica lingua greca, accento che noi
possiamo ricostruire solo in minima parte. Possiamo trovare l'origine della lirica
greca nei canti di lavoro ed in quelli genericamente 'popolari', ma soprattutto negli
inni cultuali, quali il peana, ed in quelli legati a particolari cerimonie, come l'imenèo
nuziale ed il thrênos funebre, che ha un forte influsso sullo sviluppo della Tragedia.
La poesia lirica 'corale' si distingue in forme molteplici, connesse ognuna a
particolari occasioni: così l'encòmio è un canto celebrativo; l'epicédio (o thrênos)
viene cantato per il lamento funebre; l'epinìcio per vittorie atletiche; l'epitalàmio e
l'imeneo per le nozze; l'inno viene intonato in onore di divinità; l'iporchema in
occasione di danze mimiche; il partènio è riservato a cori di fanciulle; il peana nasce
come canto in onore di Apollo ma diviene poi anche canto di guerra, di vittoria e di
ringraziamento; il prosòdio viene intonato per processioni e lo scòlio durante i
banchetti. La forma più antica di poesia lirica corale è rappresentata dal nomo, che
insieme al ditirambo aveva aspetti drammatici. Non c'è dubbio che le parti cantate
del dramma greco si ricolleghino alla lirica arcaica. L'origine spartana di
quest'ultima, o comunque il grande impulso che essa riceve a Sparta, spiegano
l'impronta dialettale dorica che la contraddistingue pure ad Atene. Essa si distingue
anche per la libertà degli schemi metrici, che trovano gradualmente proprie leggi
nelle diverse necessità del canto e della danza.
Per quanto riguarda la tragedia essa si svolge in giambi scorrevoli (metrica greca, sillaba breve e lunga), ma passa talvolta a concitati anapesti (due brevi ed una lunga) od a gravi trochei (lunga e breve). Il commo (dialogo lirico tra coro e attori sulla scena) viene appunto usato per momenti di particolare commozione, in cui l'eroe ed il coro si alternano in un canto appassionato. Con Euripide la parte corale va stemperandosi sempre più in monodie eseguite dall'attore, ricche di docmî (metro tipico della tragedia) le cui arsi si urtano tanto e le cui tesi sono così irregolari da rendere efficacemente i turbamenti del protagonista. Si risente ormai dell'evoluzione dei canti lirici polifonici, soprattutto del ditirambo, nel quale ha un'importanza sempre maggiore il virtuosismo musicale, a scapito talvolta del testo, ridotto ad elemento secondario. Armonie imitative e contrasti strumentali sostituiscono nel ditirambo l'antica distribuzione in strofe ed antistrofe, rendendo più attuali gli 'a solo' ed i 'tutti'. Analogamente con Euripide prevalgono nella tragedia commi e monodie. Per i cori si usano i diversi metri 'lirici' che, con le diverse graduazioni di cui erano capaci, si adattano ad ogni stato d'animo collettivo.
LA MONODIA LITURGICA CRISTIANA
Riguardo al canto cristiano dei primi secoli non sappiamo nulla. Si suppone che la
prima comunità cristiana usasse per le sue celebrazioni un tipo di canto non troppo
dissimile da quello delle sinagoghe. La liturgia ebraica era caratterizzata dal fatto di
essere interamente "cantillata": le parole venivano intonate su formule melodiche
tradizionali, costituite in genere da intervalli musicali molto piccoli; spesso la voce si
spostava da una nota all'altra con un movimento quasi scivolato, senza salti netti. Il
ritmo era libero, modellato sul ritmo del verso. La principale eccezione consisteva
nella salmodia: i salmi venivano cantati ponendo la recita su un'unica nota
continuamente ripetuta, fatta precedere e seguire da formule di intonazione e cadenza.
Il canto poteva essere in stile sillabico oppucre in stile melismatico o fiorito (quindi
ad una sillaba potevano corrispondere molte note).
In occidente il canto liturgico rappresentò, per gran parte del medioevo, la principale
manifestazione musicale. Lo stesso si può dire delle composizioni trovadoriche che
tuttavia, per effetto dei contatti con l'oriente assimilarono elementi del canto islamico.
Nel XII e XIII anche i cantori di musica sacra cominciarono a introdurre un
linguaggio musicale fiorito nelle esecuzioni.
Il canto che potremmo definire artistico cominciò a delinearsi con l'ingresso della
polifonia. Già alla fine del XV secolo lo stile di esecuzione della musica sacra si
arricchì di passaggi vocalizzati di agilità, quelle che saranno poi in futuro le
colorature. Inizialmente le improvvisazioni ebbero più carattere di perizia
contrappuntistica che di virtuosismo vocale. Fino alla metà del Cinquecento i cantori
di cappella dell'Europa occidentale erano assai più compositori che validi vocalisti.
Successivamente il sempre maggiore sviluppo del canto fiorito fece sì che venissero
reclutati cantori più specializzati e dotati voci cospicue, favorendo l'affermazione dei
cantanti di gorgia (gorgia nell'accezione di vocalizzo, abbellimento) e quindi dei
virtuosi vocali.
S. AGOSTINO E IL CANTO
S.Agostino inizia ad apprezzare la musica, per la precisione il canto liturgico,
ascoltando la madre Monica cantare nella chiesa di Milano. Da quel momento, per
lui, l'ascolto della musica, la riflessione sulle strutture ritmiche del verso e del canto
(De musica) non sono separabili dal profondo rapporto che intrattiene con sua madre.
E' uno dei pochi, tra i primi padri della chiesa ad apprezzare ed incoraggiare l'uso del
canto durante le funzioni liturgiche.
Commentando il Salmo 99 giunge perfino a dire che il fedele gode, cantando, proprio
di quelle parole divine che comunque non saprebbe spiegare. La musica e il canto,
spiega l'autore, per Agostino sono una forma di partecipazione a quel "Verbum" che è
la Rivelazione e che dunque non è soggetto al passare del tempo. Attraverso S.
Agostino, la musica mostra così il suo volto contraddittorio: espone la verità
dell'eterno, pur essendo legata a doppio filo allo scorrere del tempo e alla sua
scansione in uno o più ritmi. Egli non può risolvere razionalmente questo doppio
statuto della musica, però lo evidenzia, in un modo che si combina mirabilmente con
la sua filosofia del tempo e della memoria, così come è espressa dalle Confessioni
fino alla Città di Dio.
La musica è per lui scienza, scientia bene modulandi e anzi «scienza del movimento
bene regolato, in modo che il movimento sia ricercato per sé». Si può dire che è in
S.Agostino che l'antica mistica numerologica si fonde con la nuova mistica cristiana.
Ma la mistica cristiana, già in Agostino e in maniera ancora più chiara in S.
Gerolamo, deve dimostrare che la vera musica è la musica dell'anima, non del corpo.
La musica viene ascoltata prima di tutto nel silenzio della meditazione, affine in
questo alla lettura silenziosa che Ambrogio fa dei testi sacri. Poi la si ascolta negli
inni cantati.
Ecco alcune suggestive citazioni da Le Confessioni:
«io non riuscivo a saziarmi di mirabile dolcezza alla considerazione della profondità
dei tuoi ordinamenti circa la salvezza del genere umano. Quante volte una pungente
commozione mi strappò il pianto tra gli inni e i cantici, mentre la tua chiesa risonava
dolcemente delle voci dei fedeli! Voci che fluivano nelle mie orecchie mentre la verità
si discioglieva nel mio cuore: vampate di pii affetti se ne sprigionavano, e le lagrime
cadevano, cadevano: e il pianto mi era dolce e salutare».
«...ed anche ora, quanto mi sento commuovere non tanto dal canto quanto da ciò che
viene cantato, se l'esecuzione è fatta con una voce bella e con una appropriata
modulazione, devo ammettere di nuovo la grande utilità di questa istituzione».
LA NASCITA DEL MELODRAMMA
Nella seconda metà del Cinquecento, il fiorente sviluppo della polifonia portò a una
classificazione delle voci, quella esistnte ancora oggi: soprani, contralti, tenori, bassi.
Essendo le donne escluse dal canto sacro, le parti di soprano e contralto erano
sostenute da ragazzi o da uomini che imitavano le voci femminili in falsetto. Da
segnalare la comparsa in questo periodo dei castrati, da lungo tempo noti in oriente.
Forti di speciali capacità assicurate dalla loro orchiotomia (resistenza polmonare,
dolcezza, agilità, agilità, intensità di suono), i falsettisti naturali italiani divennero
noti in tutta Europa per il livello tecnico del loro canto.
In questo momento storico nacque anche il melodramma, come tentativo di
ricostruzione dell'antica tragedia greca, che si pensava fosse recitata con inflessioni
intermedie fra il parlato e il cantato. Ecco il fiorire del recitar cantando, ad opera dei
primi operisti fiorentini (La camerata dé Bardi), polemicamente contrapposto allo
stile complesso del polifonismo e volto a suscitare negli ascoltatori emozioni
tipicamente umane. Questa tendenza però fu presto superata dalla presenza del
virtuosismo tipica periodo barocco, in cui il canto molto fiorito, l'improvvisazione
vocale e l'ornamentazione ne costituiscono le principali caratteristiche.
Ma altre cisrcostanze contribuirono a ridurre la funzione del canto recitativo a quella
di semplice narrazione dei fatti mentre l'espressione dei sentimenti e delle passioni
sarà presto affidato al canto spiegato presente nelle arie. Il carattere mitologico degli
argomenti messi in musica sollevò, già con Monteverdi, il problema del linguaggio
vocale dei personaggi; problema che lo stesso Monteverdi risolse affermando che il
canto recitato, ispirato al parlato, conviene a figure semplici, mentre alle divinità si
addice il canto ornato e fiorito. Si delineava così un linguaggio allegorico, che
caratterizzerà il melodramma fino a Rossini e lo svincolerà da ogni preoccupazione di
realismo drammatico.
In senso opposto procedette l'opera francese, dando maggiore rilievo alla
declamazione. Come conseguenza del suo realismo drammatico, l'opera franese basò
il rapporto voci-ruoli sulle carattestiche dei personaggi, in base al genere e all'età.
A parte i diversi scopi espressivi, la tecnica vocale risultava identica sia per le scuole
opersitiche, che per le cantate sacre. La fonazione mirava costantemente a suoni
morbidi, rotondi, soavi.
I compositori agevolavano questa vocalità con melodie di andamento legato, con
pause, nel fraseggio, che consentivano un ritmo respiratorio regolare.
Il romanticismo provocò una frattura fra la fonazone belcantistica e le finalità
espressive dei compositori; questi anteposero sempre di più l'effetto drammatico a
quello vocale. Per conseguenza melodie di andamento legato si affiancarono alla
presenza di canto declamato, acuti di forza.
Nell'Ottocento e nel primo Novecento la musica vocale da camera, dal Lied alla
romanza da salotto italiana, si fondò sulla tecnica del canto operistico.
Carattere completamente diverso, in quanto legati alla spontaneità della voce non
coltivata, hanno il canto jazzistico, quello del folclore afroamericano (blues,
spirituals).